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Johnny Dawes

Intervista a Johnny Dawes, uno dei climber più talentuosi e influenti della Gran Bretagna.

Eloquente, articolato. Talentuoso. Artistico. Sicuro di sé. Queste sono gli aggettivi che vengono subito in mente dopo aver parlato con Johnny Dawes, senza ombra di dubbio uno degli arrampicatori britannici più talentuosi e importanti di tutti i tempi.

Nato nel 1964, Dawes ha iniziato ad arrampicare a 14 anni. A quel tempo l’arrampicata oltremanica era ancora soprattutto “trad” ed era “guidata” da Pete Livesy e Ron Fawcett. Proprio in quel momento però stava iniziando, con l’arrivo degli spit, la rivoluzione alimentata da Ben Moon e Jerry Moffatt e guidata anche da Andy Pollit, John Redhead, Paul Pritchard, John Dunne e Steve Mayers per citare solo alcuni dei più importanti. E’ in questo contesto che, per tutta la metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, Dawes è entrato in scena, creando con la sua geniale creatività una lista pressoché infinita di vie test che hanno portato il trad inglese ad un livello fino ad allora inimmaginabile, sia in termini di difficoltà pura, sia per lo stile di apertura.

Le vie di Dawes coprono l’intera lunghezza e larghezza della Gran Bretagna, dalle scogliere di Gogarth alle miniere di ardesia sopra Llanberis, passando per le montagne scozzesi e gallesi e – per quello che è il suo primo amore – il gritstone nel Peak District. Tra le sue vie vanno annoverati “terreni sacri”, come Gaia, The Quarryman e Indian Face per citare solo tre delle più famose. Mentre le prime due sono conosciute grazie al film senza tempo Stone Monkey, l’ultima via situata nella falesia di Clogwyn Du’r Arddu è considerata una delle migliori e più rappresentative di un’epoca in cui il trad più corraggioso ha spinto i limiti di ciò che era psicologicamente possibile, raggiungendo un punto che poche altre vie hanno superato o eguagliato. Per meglio comprendere questa impresa, vale la pena ricordare che, in un quarto di secolo, Indian Face è stata ripetuta tre volte soltanto, da Nick Dixon, Neil Gresham e Dave MacLeod.

Due decenni sono passati da quando Dawes ha dominato il trad britannico e ora il suo amore per l’arrampicata è più forte che mai, la sua sete di nuove linee rimane inappagata. E’ ancora attivo nell’aprire nuove vie, naturalmente e rigorosamente a-vista. Adesso con l’uscita della sua autobiografia (Full of Myself, per ora solo in inglese), è arrivato il momento di saperne di più.

Johnny, cominciamo con Indian Face. Per molti aspetti questo via è stata il culmine di tutte le tue vie, nonostante sia stata realizzata nel 1986, durante la fase iniziale della tua carriera…
Ebbene sì, immagino che questa valutazione sia corretta se si guarda in termini di realizzazione personale. Ma se cerchi una via che richiede precisione tecnica in una situazione pericolosa, per me dovrebbe essere The Angel’s Share a Black Rocks, che ho salito dieci anni più tardi. Se uno è più alto di me questa via è probabilmente E8, ma per me è stato sicuramente E9. Immaginate un boulder di 8A, a 25 piedi da terra (ndr 7,6 metri). E al tempo non avevamo crashpad ovviamente. Poi c’è anche Hardback Thesaurus a Gogarth: in termini di realizzazione, anche questa è stata dannatamente difficile. Salita a-vista. Sono questi tre nomi quelli che davvero mi vengono in mente.

Prime salite, a-vista. Più si ha a che fare con le tue vie, più ci si rende conto che questa è uno dei tuo Leitmotif. Per caso era questa anche l’intenzione originale su Indian Face?
Sì, ci tenevo molto a salire Indian Face a-vista ed ero disposto ad investire tempo e fatica per farlo. Sono riuscito a salire 85 piedi sulla parete a-vista, e avevo anche stimato correttamente l’arrampicata fino alla cengia dove ci si può riposare. Da lì si trattava di scalare l’ultima parte, avanti ed indietro dalla cengia. In base a quello che riuscivo a salire all’epoca, pensavo che se fossi diventato sufficientemente forte ci sarei riuscito.

E che cosa sarebbe successo?
Se avessi fatto così, avrei potuto imprimere una direzione “plausibile” per una piccola minoranza di persone.

Però si potrebbe sostenere che c’è questa piccola minoranza che sta andando in quella direzione plausibile
Sì, gente come Leo Houlding, Patch Hammond, Will Perrin, James MacHaffie, George Ulrich, Neil Dickson, Ben Bransby, Ryan Pasquill – sono sicuro di aver dimenticato qualcuno, scusatemi! Sì, tutti questi sono riusciti a salire il grado E7 a-vista. Ma non molti sono entrati nella categoria E8. E posso sbagliarmi, ma non credo che il grado E8 sia stato ancora aperto a-vista. Guardando indietro a quello che facevamo all’epoca, penso che negli anni ’80 qualcuno stava realizzando davvero della belle cose.

Il che ci riporta a Indian Face. Ti ricordi ancora il momento in cui sei partito dalla cengia?
Beh, è successo molto tempo fa, ma sì! L’arrampicata è così aleatoria. Quando lasci la cengia, è meglio considerarsi già morto. A quel punto devi solo agire.

Correva l’anno 1986. Un anno fondamentale per te e per il trad brittanico, con vie fonte d’ispirazione come The Quarryman, End of the Affair, Slab and Crack per citarne solo tre. Come sei arrivato a questo punto?
Fondamentalmente sapevo dal 1983 che stavo per cambiare le cose. A quel tempo la gente non si rendeva ancora conto di quanto l’arrampicata dinamica avrebbe potuto influenzare le cose. Le migliori vie erano lì fuori, in attesa di essere salite e alla fine le cose sono più o meno accadute come me le immaginavo. Se non sono riuscito su alcune vie è stato a causa del tempo o di certi scenari di vita che mi hanno fermato.

Per esempio?
La via Careless Torque. Ho detto a Ron Fawcett di questa via, e lui l’ha salita giusto prima di me nel 1987. Messiah a Burbage South è un altro esempio: il giorno in cui sono andato per effettuare la prima salita ho visto della magnesite sullo spigolo, Jerry Moffatt l’aveva appena fatta.

Quindi c’era molta competitione?
La definirei come competizione amichevole tra le varie bande di climber. Io facevo parte del gruppo di John Allen – Steve Bancroft, e anche di quello del Galles del Nord.

Che ci dici degli altri che erano attivi nell’apertura di nuove vie?
C’era naturalmente il gruppo dello Yorkshire, ma non l’abbiamo mai visto, era una situazione piuttosto strana e fredda perché non li abbiamo visti salire le vie e c’era sempre qualcosa di strano nelle loro storie. Ma ad essere onesti questa è roba vecchia, che i media avrebbero dovuto trattare al momento, ma non si sono preoccupati di essere precisi. Si potrebbe dire che nei momenti cruciali, gli interessi commerciali hanno guidato la riflessione dei media.

Quindi ti sei giustamente concentrato sulla tua arrampicata. Nel 1986 hai anche aperto Gaia, una via che forse più di più ha catturato l’immaginazione della gente, anche oggi.
Gaia era una di quelle vie che mi sarebbe davvero piaciuto salire a-vista. Ma quando l’abbiamo guardata la prima volta, nel 1984, sembrava impossibile e ci siamo detti che era un vero peccato che qualcosa di così bello non fosse scalabile. Era un pezzo di roccia innovativo, così incredibilmente bello, ma mi sono accorto che una caduta dopo il passo chiave avrebbe significato la morte. Ho pensato che le poche protezioni non avrebbero tenuto una caduta – ad essere onesto, non so perché non si siano mai rotti e non so davvero perché così tante persone provino questa via, prima dovrebbero fare un apprendistato su altre vie.

In quel momento sei sceso con la corda dall’alto lungo il diedro, ma è ben noto non avevi provato né il ristabilimento né la pericolosa uscita.
Sì, era quello il modo in cui facevamo le cose allora.

Quanto è stato difficile?
Gaia era fisicamente molto difficile. Per uno della mia altezza è sicuramente V9. La via è di per sé insolita, è una combinazione all’inizio di un boulder molto difficile e una uscita che richiede coraggio. Lisa Rands l’ha ripetuta e ha detto che per lei è V9 boulder.

Infatti, non sei uno dei climbers più alti…
Sì, ma si può sempre migliorare! Ci sono poi alcune situazioni in cui con la dinamicità è possibile utilizzare prese alle quali altrimenti non ci si può appendere, e salire cose che non possono essere fatte con la forza bruta. Alcune vie sono feroci e poi davvero delicate, e la capacità di guizzare tra le due è una prova evidente del fatto che sei al tuo limite. E’ molto impressionante avere potenza estrema, ma se non sai arrampicare anche in modo dinamico, allora non sarai mai arrivato al tuo vero limite nell’arrampicata!

Cosa ti ha dato Gaia?
Gaia mi ha lasciato un’impressione profonda, perché in quel momento mi sentivo fragile emotivamente nella vita in generale. Mentre mi spostavo c’era una coccinella posata sulla presa, sapevo che avrei dovuto schiaffeggiarla ed ucciderla per utilizzare l’appiglio. Tutti noi abbiamo ucciso insetti in passato, deliberatamente o semplicemente perché siamo stati goffi pestandoli, ma su Gaia ho dovuto uccidere la coccinella per sopravvivere. L’atmosfera era davvero carica e questo mi ha “bruciato” la testa.

Gaia, salita con uno stile più puro rispetto alla maggior parte delle ripetizioni di oggi. Il creare nuove vie a-vista sembra sia stata la tua vera ricerca…
Beh, in verità molte delle mie nuove vie sono una cosa a metà strada. One Step Beyond Direct è un buon esempio: il mio ricordo di questa via è un po’ sfocato, ma a quanto pare avevo una corda appesa lì vicino quando l’ho salita. Suppongo di aver messo la corda perché, se fossi stato del tutto bloccato, avrei fatto un salto per prenderla. Per certi versi, nel 1984, era quasi come aprire una via di E8 a-vista. Ovviamente non è così, ma si può comprendere che stavo iniziando ad entrare in quel livello di difficoltà.

E poi c’è anche Hardback Thesaurus a Gogarth che hai citato all’inizio
Sì, avevo raggiunto una certa forma fisica arrampicando sul calcare in Francia, e questo probabilmente è stato il mio miglior sforzo dal basso. Nessun chiodo, a-vista pura. La via ha avuto una sola ripetizione, dal mio amico Twid Turner e lui la ritiene una delle più difficili E7 che abbia mai salito. Difficile E7, facile E8, arrampicata di 7c, chiamatela come volete, ma alla fine della storia è un’arrampicata difficile su roccia marcia. Non è come le vie sulla vicina North Stack Wall, dove la roccia prende 8 punti su 10, qui diventa 5 su 10 e puoi cadere a terra dall’ultima sezione di 6a (inglese). Se ci pensi, è davvero un brutto pezzo di via!

Questo è successo nel 1988, due anni dopo aver aperto End of the Affair e abbandonato il gritstone…
Sì era la fine di quella che definisco come la mia prima ondata sul gritstone. Poi sono andato via per arrampicare a Gogarth, per esplorare le miniere di ardesia nel Galles del Nord e ho trascorso più tempo in montagna.

Parlaci di questa tua esperienza sullo “slate”
Beh, penso sempre che l’ardesia e il gritstone siano come due cugini. Se sei bravo sul gritstone, allora lo sei anche sull’ardesia. Cerchi sempre di conservare la presa, non hai mai abbastanza grip, sul gritstone perché non ci sono le prese e cerchi sempre di trasformare quel nulla in qualcosa di tenibile, mentre sull’ardesia c’è qualcosa, ma la direzione in cui sono dislocate le prese le rende veramente difficili da usare. Anche se non sono proprio gli stessi, i movimenti degli arti e del corpo, e la continuità dei movimenti, sono quelli che rendono il tutto possibile..

Steve McClure ha detto dopo la sua ripetizione di The Quarryman che aveva trovato molti 8c più facili…
Questo diedro è unico, richiede un’arrampicata molto precisa mentre il corpo è sotto un completo assalto fisico. Per avere successo, devi realmente padroneggiare sia la tecnica sia la fisicità. Quando si aggiunge l’elemento paura a tutto questo, è allora che la tua arrampicata progredisce ad un livello di maturazione importante…

Dawes of Perception è certamente una via in cui entra la variante “paura”…
Dawes of Perception è stata una via davvero molto coraggiosa. L’ho salita nel 1985 e sentivo che non era lontana dall’ E8. Anche se l’ho data E7 6c, è stata la prima via dove ho pensato che avrei potuto dare il grado E8. In quel momento per me è stato uno sforzo fantastico, sono riuscito a trascendere da me stesso per farla e anche oggi non sono molte le persone della mia statura che l’hanno salita. Pensandoci bene, anche se probabilmente ce ne sono di più, per quello che ne so sono soltanto in tre che hanno ripetuto Dawes of Perception: Tony Foster, Paul Pritchard e John Redhead.

Beh, quest’ultimo è un nome a cui sei legato profondamente
Sì. Mettiamola così: John Redhead è sempre stato molto stimolante. Stava facendo lo stesso tipo di arrampicata che volevo fare io, e per certi aspetti credo che la sua influenza – sia positiva sia negativa – mi abbia spronato verso cose più grandi.

Come appunto Indian Face! Che praticamente non è mai stata ripetuta, nonostante l’arrampicata sia diventata una cosa quasi di massa rispetto agli anni ’80
A volte mi sento stupido a parlare di arrampicata tradizionale perché sento che il boulder e l’arrampicata sportiva sono progredite molto di più. L’elemento del rischio, di fare vie pericolose a volte mi sembra antico e superato.

Sicuramente solo a volte…
Forse sto invecchiando. Ma alcune cose sono cambiate per sempre, prendi per esempio i crashpad. Non li avevamo e ora hanno cambiato le cose in maniera significativa, hanno reso le cose meno pericolose. Detto questo, se ci fossero stati probabilmente li avrei usati anch’io. Ma non esistevano.

Climber come James Pearson hanno preso una posizione “etica” e hanno aperto vie senza crashpad
Sì, se applichi un’etica rigorosa, questo rende le cose molto difficili davvero!

Parlando di etica: c’è stato un momento in cui le headpointing, cioè il tentare le vie con la corda dall’alto prima di salirla dal basso, era diventata di gran moda
Credo davvero che la gente non dovrebbe aprire nuove vie di 8a in stile headpoint. Per fare un significativo passo avanti, dovrebbero fare vie di almeno 8b+ e 8c in questo stile.

Allora, cosa vorresti vedere maggiormente in futuro?
Vie nuove aperte a-vista! Questo è certamente il gioco più difficile. E’ questo che veramente conta!

Un’ultima domanda: ora che è uscito il tuo libro, che farai?
Sarò in tour in Europa nel 2012 e vorrei anche concentrarmi sulla mia arrampicata. Ma sto anche lavorando ad un sacco di altre idee e anche ad un nuovo libro che tratta del come, cosa e quando muoversi. Sono sempre stato attratto dal movimento e dalla coordinazione, fin da quando ho iniziato ad arrampicare, e vorrei prendere quello che ho imparato e insegnarlo ad altri climber ed applicarlo altrove. Forse aiutare anche quelli meno fortunati, come ad esempio le persone affette da disprassia, dalla incapacità di coordinarsi. Porterebbe le cose ad un livello completamente diverso, sarebbe una sfida fantastica!

Stone Monkey by Alun Hughes

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